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Elezioni USA: la partita è ancora aperta

Federiga Bindi
FB
Federiga Bindi Former Brookings Expert

May 27, 2008

Michigan e Florida sono gli “Stati ribelli” che sono stati “puniti” dal partito democratico per aver anticipato la data della primarie contro la volontà del National Democratic Committee e che in teoria non manderanno delegati alla convention nazionale. Ma si tratta di una decisione difficile da tener ferma – la Florida in particolare potrebbe costare l’elezione al candidato democratico se i suoi elettori, per protesta, non andassero a votare il 4 novembre. La questione è al vaglio del Rules and Bylaws Committee che dovrà decidere appunto sabato prossimo.

Varie sono le possibilità: dividere i candidati a metà è una soluzione non accettata da Hillary Clinton, attribuirli così come sono alla Clinton non è accettato da Barak Obama in virtù del fatto che – se è vero che nessuno dei due candidati aveva fatto campagna nei due stati in questione ed il nome di entrambe era sulle schede elettorali in Florida – in Michigan c’era sono quello della Clinton. I 30 membri del Committee cercheranno una soluzione: tuttavia se uno dei due candidati non fosse d’accordo con la soluzione trovata, la questione passerà nelle mani del Credential Committee che se ne occuperebbe a partire dal 29 giugno. Nel frattempo, gli ultimi tre stati a votare saranno l’Indaho martedì 27 maggio, Porto Rico il 1 giugno, Montana e South Dakota il 3 giugno.

Dei tre stati il più importante è probabilmente Porto Rico – per quanto solo i cittadini di Porto Rico che risiedono in continente potranno votare il 4 novembre. La questione è piuttosto vedere se Obama riesce a conquistare il voto “latinos”, che sono in netta prevalenza per la Clinton. In stati come la California, le rivalità tra neri e latinos – in lotta per gli impieghi in particolare nel settore statale, già considerati “propri” da neri e oggi scalzati dai latinos – hanno contribuito in modo significante alla vittoria di Hillary.

La forza di Barak Obama sta infatti nell’aver portato al voto alle primarie (e quindi ai democratici) moltissimi giovani e nell’essere percepito come una novità ed un ispiratore in un paese che si percepisce in grande crisi (che poi sia crisi in termini europei, questa è un’altra cosa). Ma la sua debolezza sta nell’incapacità di convincere fasce di popolazione che saranno fondamentali al momento del voto: in particolare i latinos e la classe media con livello di educazione formale e entrate meno elevate (quella che potremmo definire la “pancia bianca” del paese), particolarmente importanti nei cosiddetti “swing states”, gli stati dove manca la netta dominanza di uno dei due partiti. Quanto al fattore razziale, è una questione ambivalente: da una parte Obama attira il voto dei neri, dall’altra può potenzialmente allontanare fasce di elettori bianchi (circa il 20-25% degli elettori affermano che race matters, ma bisogna vedere quanti lo pensano e non osano dichiararlo). Sicuramente, comunque, i discorsi incendiari e antipatriottici del pastore Wright ed la supposta mancanza di patriottismo di Obama, solo marginalmente utilizzati dalla Clinton, probabilmente nel timore di danneggiare i Democrats nel loro complesso, ritorneranno fuori in campagna elettorale. Questi suoi punti deboli verranno infatti verosimilmente utilizzati da McCain durante la campagna elettorale, se Obama sarà il candidato Presidente.

McCain può infatti sperare di recuperare parte di questi votanti, cosa specialmente possibile se ci sarà – come pare – voto disgiunto: voti ai Democratici al Congresso e Presidente Repubblicano. La vittoria assoluta dei democratici al Congresso è infatti una delle poche certe di questa lunghissima campagna.

Lunghissima ma non la più lunga. Bill Clinton, ad esempio, riuscì ad aggiudicarsi la nomination democratica solo a giugno, come ha ricordato Hillary qualche giorno fa (per altro facendo ricordando che anche Bob Kennedy stava facendo ancora campagna quando fu assassinato in giugno, un uscita infelice rimbalzata in modo esponenziale dai media).

Sì perché i grandi media, che fino all’autunno erano accesi sostenitori della Clinton, sono progressivamente diventati in maggioranza pro-Obama.

Sul perché di questa preferenza abbiamo già scritto e sicuramente il fattore novità costituito da Obama è stato uno dei fattori principali. E non c’è dubbio che Obama rappresenta il sogno americano: uno sconosciuto Senatore dell’Illinois che nel giro di due anni viene eletto al Senato federale e corre per la Presidenza. Ma conta anche un maschilismo ancora abbastanza presente negli USA, al contrario di quanto si possa pensare nel Vecchio Continente. Un candidato Presidente qui deve avere una moglie (e figli) sorridenti per provare la propria capacità a fare il buon padre della… patria. In assenza di congedi di maternità retribuiti e di asili nido decenti e a buon mercato (altro che l’Italia, provare per credere!!) – molte mamme decidono di fare 2 o 3 figli in fila e restare a casa per qualche anno. Non a caso, sono le donne over 35 le più forti sostenitrici della Clinton. Un articolo sul Washington Post l’altro giorno ringraziava Hillary Clinton per aver cambiato per sempre la campagna presidenziale; tuttavia, parlando delle possibili future candidate presidente, escludeva quelle tipo Janet Reno (Governatore del Nevada) perché non sposata e senza figli (sic!) e quelle con figli piccoli perché sennò l’opinione pubblica chissà che pensa…

Con questo in mente è più facile capire l’accanirsi contro Hillary: ad ogni appuntamento elettorale i media hanno prefissato un goal, pena la condanna a doversi arrendere e puntualmente la Clinton è sempre andata oltre il goal ma nessuno ha cambiato opinione per questo. Anzi, ogni volta che Obama ha perso una primaria ha finito per essere presentato come vincitore dalla stampa perché qualche super delegato ha dichiarato pledge per lui.

E proprio quanto ai superdelegati, la stampa si affanna a dire che ormai tutti i superdelegati sono per Obama. Secondo politico.com, dei 797 delegati 276,5 (!) sono per la Clinton, 311,5 (!) per Obama e 175 ancora devono dichiarare per chi intendono votare. Il margine dunque è ancora stretto. E qui rientra la questione dei delegati di Florida e Michigan: non è solo una questione di quanti siederanno alla Convention Democratica, ma anche del quorum necessario per aggiudicarsi la nomination: essendo in vantaggio, Obama ha interesse che il quorum rimanga il più basso possibile per cercare di raggiungere il numero necessario alla nomina entro il 3 giugno.

La Clinton sta anche sollevando la questione che, in caso di mancato raggiungimento del quorum da parte dei candidati, sia necessario tener di conto nella decisione da parte del partito non solo del numero di delegati ed del numero di stati vinti ma anche del numero totale dei voti ottenuti. Per questo, i 2.4 milioni di votanti alle primarie della Florida e del Michigan sono due volte più preziosi.

Nell’annuncio del WomenCount si legge: “i media ed il National Democratic Committee hanno sottostimato la passione, la forza, l’intensità e la determinazione dei sostenitori di Hillary ed il potere della voce delle donne”. E, aggiungerei, quella della stessa Hillary. Ma credo che invece sia proprio vero il contrario: ho l’impressione che nessuno abbia sottostimato la Clinton, bensì il paese non è ancora pronto per una donna forte, intensa e determinata che da smiling wife diventa Commander in Chief.

Da Parte sua McCain – arrivato presto alla nomination repubblicana – e che con i suoi 71 anni sarebbe il più vecchio Presidente degli USA e che ha perciò dovuto mostrare alla stampa i suoi record medici degli ultimi 5 anni (sic!) – ha avuto il tempo di valutare strategicamente quale sarebbe il candidato più debole sul quale puntare per una difficile ma non impossibile rimonta, accreditandolo come rivale nella corsa Presidenziale. Il fatto che abbia scelto Obama, aggiunge a mio avviso un punto interrogativo in più sulla sua eventuale nomina.