Sections

Commentary

l’America è pronta a tornare al multilateralismo. Ma gli europei dovranno darci una mano

Philip H. Gordon
Philip H. Gordon Former Brookings Expert, Mary and David Boies Senior Fellow in U.S. Foreign Policy - Council on Foreign Relations

February 12, 2008

Visibilmente soddisfatto per i risultati ottenuti da Barack Obama nelle primarie del “super Martedi”, Philip Gordon, consigliere per la politica estera del senatore democratico e noto analista politico alla Brookings Institution di Washington, commenta ottimista: “strutturalmente, l’America non è più rigidamente divisa in due come fu nel 2000 e nel 2004, ma ha una chiara maggioranza democratica”. “Questo”, Gordon spiega, “agevolera” un ritorno al multilateralismo in politica estera, ma gli europei ci dovranno aiutare: è stato comodo finora per l’Europa sottrarsi ad alcune responsabilità internazionali con la scusa che si sarebbe fatto “l’interesse di Bush”.

Prof. Gordon, facciamo un passo indietro. Lei ha criticato fortemente l’amministrazione Bush per la gestione della politica estera, in particolare per come è stata condotta la campagna anti-terrorismo dopo l’11 settembre. Il suo ultimo libro si intitola Winning the Right War: qual è la critica implicita in questo titolo?
L’America ha combattuto una guerra “sbagliata” in questi anni perché Bush ha concepito la “guerra al terrore” come un conflitto tradizionale combattuto sui campi di battaglia e che si sarebbe vinto con la forza militare. Quella che si è aperta dopo l’11 settembre, tuttavia, non assomiglia tanto alla Seconda Guerra Mondiale, quanto semmai alla Guerra Fredda: è una contesa ideologica, che non potremo mai vincere se la combattiamo solo con le armi.

Nel suo libro vi è una rivalutazione del “contenimento” come una strategia da cui si può imparare molto anche oggi.
Non vi è dubbio. Il contenimento fu realizzato attraverso scelte tattiche anche diverse tra loro, ma alla base vi era un’idea di misura e, in un certo senso, di “autocontenimento”. Per quanto considerassero l’Unione Sovietica un nemico assoluto, gli Stati Uniti evitarono scontri diretti e, ovviamente, non giunsero mai ad occupare il Cremlino. L’idea era quella di agire sull’avversario con pazienza e a diversi livelli: da quello militare, a quello politico fino a quello delle idee. Conquistare ai propri ideali le masse dei paesi del blocco sovietico fu, probabilmente, il passaggio cruciale.

Lei parla di “vincere il nemico” come se esso fosse uno solo e facilmente identificabile. Non crede che uno dei problemi della politica estera americana durante l’era Bush sia stato proprio quello di semplificare eccessivamente il quadro e trascurare che gli Stati Uniti hanno rivali diversi, ognuno dei quali richiede strategie differenti?
Una delle operazioni più deleterie di Bush è stata quella di accorpare tutti i rivali dell’America sotto la nozione semplice, ma semplificata di “terrore”. L’“Asse del Male” includeva paesi molto diversi e distanti culturalmente come l’Iran e la Corea del Nord. Inoltre Bush ha fatto degli arabi, dei persiani, degli sciiti, dei sunniti un unico fascio. In realtà bisognerebbe ricominciare a distinguere, anche perché dividere il fronte degli avversari è il primo modo per iniziare a batterli.

Cosa intende, dunque, per “nemico”?
Nel libro mi riferisco in particolare ai gruppi terroristici. Non tanto perché ritengo che siano la minaccia più grave all’America. Trovo anzi poco produttivo fare una classifica delle minacce anche perché ognuna, come diceva giustamente lei, necessita di una risposta diversa. Ma la mia attenzione è rivolta ai terroristi perché essi rappresentano una minaccia di tipo nuovo che non si può fronteggiare con metodi convenzionali. È lì che la guerra la possiamo perdere. Bisogna comprendere il ruolo delle idee e della ideologia, perché questi sono gruppi che interpretano l’Islam in modo radicale e che non possono essere fermati con il solo uso delle armi. Serve, in questo caso, contenere il fenomeno nella società. Ecco perché ho riproposto l’idea del contenimento: l’osservazione che la forza militare da sola non basti; e l’idea che bisogna agire sulle società con la pazienza di chi sa di incarnare ideali giusti e condivisibili.

Della Guerra Fredda molti commentatori americani ricordano con nostalgia anche il maggior grado di bipartisanship e le minori tensioni ideologiche interne all’America. Condivide anche lei questa nostalgia?
È facile ora fornire un’immagine romantica della Guerra Fredda come di un periodo in cui l’unità di intenti contro il nemico sovietico rendeva tutto più semplice, qui in America e anche all’interno dell’Occidente. In realtà, vi furono notevoli divisioni ideologiche anche allora e l’esistenza di un nemico minaccioso e ben identificato contribuì a tenere a freno queste tendenze, ma non le eliminò mai completamente. La società americana è stata divisa spesso anche allora. Pensi al Vietnam o alla fortissima carica polarizzante di un presidente come Reagan. Detto questo, ciò invece di cui gli americani sono veramente stanchi è la faziosità, è lo scontro continuo tra fazioni politiche anche quando si prendono le decisioni della massima importanza per il futuro del paese.

E qui si arriva al presente e al suo ruolo di consigliere di Obama. Il suo slogan “non vi sono Stati rossi o blu, ma solo gli Stati Uniti d’America” sembra in perfetta consonanza con il suo ragionamento.
Sì. Credo che sia proprio questa la forza di Obama e la ragione di un successo che spazia da Stato a Stato, e che attraversa strati sociali diversi e anche appartenenze politiche diverse. Obama offre una faccia nuova all’America. Veniamo da due tra le presidenze più polarizzanti della storia americana. Abbiamo bisogno di un presidente che unisca di nuovo la nazione e che incarni anche personalmente una generazione nuova.

In questo senso lei lo preferisce ad Hillary? In fondo i programmi non sono così diversi.
Le piattaforme programmatiche per quanto riguarda la politica estera non sono così differenti, come del resto molti hanno notato. Ma vi è un diverso modo di porsi e di parlare agli americani così come al mondo. Hillary non parla con la stessa freschezza e limpidezza. È una figura meno nuova e suscita grande opposizione in ampi strati della popolazione. Obama, al contrario, è un candidato nuovo. Ha un background complesso e affascinante; ha un padre keniota, ha vissuto all’estero. È proprio un’altra cosa. Basta ascoltare i suoi discorsi per rendersene conto.

Che ne dice della sua idea di dialogare anche con Ahmadinejad, la bestia nera di Bush?
È la riprova di un approccio nuovo. L’Iran pone una sfida reale, ma non per questo non si deve trattare. Anche qui la Guerra Fredda viene in soccorso. Si trattò con il Cremlino anche se il comunismo era il male assoluto. Come disse Kennedy: “Non si può trattare per paura. Ma non bisogna aver paura di trattare”. Obama non propone capitolazioni. Propone di usare il potere degli Stati Uniti per negoziare da una posizione di forza. Vede, anche questo è parte di quella restaurazione dell’autorità morale dell’America di cui vi è tanto bisogno: ritrovare il coraggio di confrontarsi con gli avversari e ascoltare gli alleati. In questo senso, l’approccio di Obama e il suo linguaggio nuovo potrebbero essere decisivi.

E qui si giunge al tema delicato dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa. Che prospettive vede nei rapporti transatlantici?
Vede, l’America sta cambiando strutturalmente. In realtà, non c’è mai stato quello spostamento a destra che certi commentatori avevano amplificato nel 2000 e 2004. Ma c’era comunque un paese molto diviso e una parte di esso seguì Bush nell’unipolarismo e nelle tentazioni unilateraliste. Ora ritengo che vi sia nel paese una maggioranza democratica. E in ogni caso, Bush esce talmente screditato che il candidato repubblicano di punta, il Senatore John McCain, è uno dei primi a riconoscere il bisogno di riappacificare questo paese e recuperare appieno l’appoggio degli alleati. Da convinto sostenitore del multilateralismo, attendo ottimista che si torni a politiche che lo promuovano. Ma, attenzione, c’è un rischio..

Che gli Europei non sappiano cogliere la palla al balzo?
Che gli europei si tirino indietro. L’Europa può giocare un ruolo importante per il rilancio del multilateralismo degli Stati Uniti. Questo è un punto cruciale. Se l’Europa dimostra che è pronta ad assumersi le sue responsabilità internazionali, allora il nuovo presidente americano potrà spiegare alla nazione che è meglio collaborare con gli alleati piuttosto che agire da soli. Ma se l’Europa si ritrarrà, allora immagino già la gente dire: forse Bush aveva ragione. E allora sarà difficile per noi multilateralisti americani averla vinta.

A quali questioni internazionali pensa in particolare?
Penso all’Afghanistan e all’Iran, ad esempio. In entrambe c’è stato un dialogo intraoccidentale e in Afghanistan gli alleati occidentali hanno lavorato assieme. Ma gli europei hanno finora potuto evitare scelte difficili perché c’era sempre la scusa che dietro queste azioni internazionali c’era lo zampino di Bush. È sul terreno concreto di come gestire le prossime crisi internazionali che si giocherà la sorte dei rapporti transatlantici e del multilateralismo. Il ritorno del multilateralismo non è solo desiderabile, ma anche probabile. Ma esso potrà avvenire solo se gli europei si mostreranno in grado di saperci dare una mano.

Emiliano Alessandri è ricercatore presso la Johns Hopkins University di Washington.
Raffaello Matarazzo, è ricercatore dell’Istituto Affari Internazionali e caporedattore di AffarInternazionali