Sections

Commentary

Op-ed

Obama, è arrivata la vittoria

Federiga Bindi
FB
Federiga Bindi Former Brookings Expert

June 5, 2008

La primarie sono dunque giunte alla fine: Barak Obama ha raggiunto il numero necessario di delegati per passare il quorum (2118) per poter dichiarare vittoria. Ma non è stata una vittoria su campo perché la sua performance sul campo questa primavera è stata nettamente inferiore a quella di fine inverno: in tutti quegli stati dove Obama aveva affermato che avrebbe ripreso la Clinton – Pennsylvania, Portorico, West Virginia o South Dakota, sono stai invece effettivamente poi vinti (alla grande) da Hillary.

Ma Obama è riuscito a creare un senso di “inevitabilità” della sua candidatura che ha portato un buon numero di superdelegati che ancora non si erano dichiarati – i superdelegati sono i 796 delegati che non hanno vincolo di voto per alcun candidato: tutti i membri del Congresso, i Governatori, gli ex Presidenti ed i notabili del partito – a sceglierlo. Ironicamente la Clinton ha perso la nomination proprio nel giorno in cui coglieva in South Dakota un’importante vittoria. Ma – almeno nel momento in cui scriviamo – non ha ancora dichiarato la sconfitta, proprio in virtù del fatto che in principio i superdelegati possono cambiare idea fino al giorno della Convention.

Adesso comunque tutti stanno affilando le armi in attesa della scelta da parte di John Mc Cain e Barak Obama dei rispettivi Vice. Ed ovviamente nei democratici la questione principe è: Hillary si o Hillary no. Il Vice Presidente in principio deve essere persona tale da colmare le lacune del Presidente, siano esse di tipo elettorale, caratteriale o di specializzazione. Per Obama si aggiunge una preoccupazione in più, come sanare la ferita del partito, specie alla base. I sostenitori di Hillary non hanno apprezzato il modo con cui Obama ha vinto e molti di loro (alcune statistiche parlano addirittura del 19%!) sono pronti a votare per McCain. La possibilità di un voto disgiunto (Democrats al Congresso, McCain alla Presidenza) è infatti una reale possibilità sulla tavola. Ma Obama ha anche il problema di come vincere in importanti swing states (circa 10 stati sono assolutamente indecisi) e di raggiungere l’elettorato democratico che tipicamente vota Clinton: i colletti bianchi, i latinos, le fasce più deboli della popolazione. L’elettorato di Obama è infatti quello dei più ricchi e con grado di educazione più alto, più ovviamente i neri.

Con un occhio al fatto che, se da una parte è vero che i 35 milioni che sono andati alle primarie democratiche sono il numero più alto mai visto da quando le primarie sono state introdotte per la prima volta da quando sono state istituite nel 1972, è pur sempre vero che essi sono solo un campione non rappresentativo della società nel suo complesso. Insomma, un puzzle difficile da completare.

Per quanto riguarda i quadri, i potenziali collaboratori alla Casa Bianca e dintorni, la questione è differente. Ieri stavo parlando con uno dei tanti esperti democratici che sono coinvolti in varia misura nella campagna elettorale. “Non sono sicura – gli ho chiesto – sei per Hillary o per Obama?” “Faccio parte della campagna Clinton”, è stata la risposta, “ma sono un’entusiasta sostenitore di Barak Obama”. In risposta miei occhi sbarrati mi ha a sua volta chiesto, non senza una certa dose di aggressività: “Cosa vuoi che faccia? Ho un lavoro interessante, certo, ma…”

Una volatilità di loyalty del genere – che qui negli USA è cosa assolutamente normale – in Italia è impensabile, e questo per inciso fa molto pensare al tema delle primarie si o no nel nostro partito democratico. Ma per restare strettamente al futuro della campagna negli USA, il primo punto sarà vedere se Hillary sarà o non sarà il candidato VicePresidente. Ci sono stati reciproche attestazioni di stima e dietro le quinte è una delle possibilità in considerazione ma certo non l’unica.

Se al Congresso la vittoria democratica è sicura, le Presidenziali saranno una “tight race”, come si dice qui – una corsa all’ultimo voto, diremmo noi e dall’esito non certo. Come ha riconosciuto anche McCain, sarà una campagna all’insegna del cambiamento, ma come dice il candidato repubblicano bisogna distinguere tra cambiamento buono e cambiamento cattivo. Perché in fondo gli americani non vogliono il cambiamento. E’ uno strano paese questo, in bilico tra modernità e tradizione, liberalismo e conservatorismo al limite del bigottismo.

Un altro dei tanti advisors democratici in un pranzo che si supponeva di lavoro ci ha raccontato trionfante della sua futura sposa e di come abbia lasciato un lavoro remunerativo ed interessante per dedicarsi a tempo pieno alla preparazione del matrimonio. E, certo, “she has been so great in doing this!”. Un altro dei tanti advisors mi ha cortesemente spiegato che la nuova frontiera del femminismo americano è proprio questa. Ed in effetti, anche la mia baby sitter mi ha annunciato oggi che – contrariamente agli accordi sulla base dei quali l’avevamo preferita ad altre candidate – l’anno prossimo non lavorerà per noi perché deve preparare il matrimonio. Sei incinta? Ho chiesto, quando ti sposi? In agosto… 2009!

E poi ci si chiede perché l’establishement del partito abbia preferito Barak Obama ad una donna che – non contenta di essere un’ottima madre, una moglie (per altro in più occasioni umiliata) e addirittura First Lady e Senatrice (di successo) – addirittura ambisce a fare il Presidente. Ma che diamine, è un ruolo da uomini questo…