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Commentary

Op-ed

La politica estera italiana tra sostanza e apparenza

Federiga Bindi
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Federiga Bindi Former Brookings Expert

October 13, 2009

L’interessante dibattito promosso da AffarInternazionali sul ruolo dell’Italia nelle relazioni internazionali suscita tre domande: perché l’immagine della politica estera italiana è così insoddisfacente, nonostante il ruolo che il paese svolge sia positivo e generalmente riconosciuto come tale dai partner? Il “declino dell’Italia” non deve piuttosto essere visto nel quadro di un più generale declino dell’Europa? L’Italia è una grande o una media potenza?

L’immagine della politica estera italiana

Negli ultimi anni l’Italia ha svolto un ruolo positivo nelle relazioni internazionali, in aree e modi assai diversi: dalle missioni in Libano e in Afghanistan, al contributo fornito al rilancio delle relazioni con Russia e Iran, passando per la crisi georgiana e per l’efficace gestione della Presidenza G8. Un’azione a volte di scarso impatto mediatico, ma non per questo meno importante e oggetto di riconoscimento da parte dei partner internazionali. Si tratta in buona parte di politiche e iniziative realizzate nel segno della continuità fra i diversi governi. Sebbene con distinguo ed accenti diversi, legati alle sensibilità dei vari ministri – si prenda ad esempio il Medio Oriente – vi è infatti un’intelligente e sostanziale continuità nella politica estera italiana. Tuttavia, a fronte di un generale riconoscimento dell’importanza del ruolo internazionale dell’Italia da parte dei leader e decisori dei paesi partner ed alleati, manca il riscontro pubblico, domestico ed internazionale.

Ciò dipende principalmente da due fattori. Come giustamente sottolineato da Vittorio Emanuele Parsi, c’è innanzitutto un radicato pregiudizio della stampa internazionale nei confronti oggi di Silvio Berlusconi come ieri di Romano Prodi, che viene strumentalmente utilizzata dall’opposizione (la quale dimentica che la posizione internazionale dell’Italia è anche il risultato delle sue politiche) e rilanciata ad arte dai media internazionali. Il secondo elemento è l’incapacità di porre in atto adeguate strategie per influenzare chi scrive di politica estera italiana, a partire dai giornalisti stranieri: il grande lavoro che svolgono le ambasciate è evidentemente insufficiente. Andrebbe probabilmente avviata una riflessione sull’opportunità di coinvolgere in tale esercizio professionisti della comunicazione, assistiti dal personale diplomatico. È necessario un investimento di lungo termine, teso ad influenzare le fonti a cui attingono i media: politici stranieri e analisti della politica estera italiana.

Contrariamente a quanto accade in Italia, infatti, dove il dibattito tra specialisti è di tipo accademico e l’interscambio tra analisti e politici è minimo, all’estero tale interscambio è radicato e proficuo. Essendo gli analisti della politica estera italiana un gruppo di persone in fondo abbastanza ristretto, il compito non dovrebbe essere insormontabile. Tentativi sporadici sono stati fatti, ma si devono per lo più all’intraprendenza di singoli individui, piuttosto che parte di una strategia complessiva. Che lo si chiami complesso di Carlo VIII, come fa Parsi, o complesso di Calimero, come fa Riccardo Perissich, il punto è l’incapacità degli italiani di fare squadra.

Declino dell’Italia o declino dell’Europa?

Il ruolo internazionale dell’Italia ha subito un tracollo con la fine della guerra fredda, per quanto ci siano voluti anni per capirlo. Ma il punto è che tutta l’Europa ha perso la sua centralità strategica e coloro che si aspettavano con Obama un rilancio dei rapporti transatlantici possono mettersi il cuore in pace. Il nuovo Presidente non ha un particolare attaccamento nei riguardi dell’Europa: è cresciuto tra le Hawaii e l’Asia ed ha radici africane, laddove i suoi predecessori avevano passato periodi nel vecchio continente. Forse proprio per questa lontananza dall’Europa Obama è un uomo del XXI secolo, con la mente proiettata nel futuro. Le logiche e le problematiche della guerra fredda non hanno più senso per lui. Il suo orizzonte sono le nuove sfide globali.

Inoltre, l’Europa oggi non è più un problema, quindi nell’ottica americana non ha bisogno di particolari attenzioni. Nella visione di Obama, l’Europa può seguire gli Usa, ma può anche restare dov’è. Prendiamo ad esempio il tema della governance globale: che dal G8 si sarebbe passati al G20 era nella natura delle cose, ma gli europei continentali (e i canadesi) hanno faticano a prenderne atto: ma che senso ha un foro in cui quattro (più uno: l’Ue) degli otto membri passano il tempo a becchettarsi? Obama ha partecipato, ascoltato e poi deciso, nello sconcerto attonito dei partner. Prendiamo la Russia e, verosimilmente in prospettiva futura, l’Iran. Gli Usa hanno usato i buoni uffici europei (e italiani) per riavviare il dialogo, e una volta riusciti nell’intento hanno subito chiarito che si tratta di rapporto a due.

Con buona pace degli europei, gli americani sono pronti a fare da sé. Un approccio miope e rischioso, ma questo è un altro discorso. Il punto è che il declino internazionale dell’Italia è parte di un più vasto declino del vecchio continente, il quale continua imperterrito e sordo ad andare contro la storia. Laddove gli americani si attendono che il Trattato di Lisbona porti ad un attore unitario più credibile, gli europei si dividono a Bruxelles su come ridurre le prerogative del futuro Alto Rappresentante della politica estera comune. Il declino dell’Italia non è isolato, dunque, è solo reso più evidente da una stampa – estera ed italiana – particolarmente accanita contro Berlusconi, oltre che dalla mancanza di una rendita di posizione, cosicché il credito italiano si è esaurito prima di quello degli altri.

Grande potenza o media potenza?

Se l’Europa è ormai ridotta a una comparsa, come si può pensare che l’Italia svolga un ruolo da grande potenza? Probabilmente non lo ha mai svolto, ma le circostanze storiche e la posizione geopolitica hanno prodotto questa grande illusione collettiva. Il momento d’oro è finito, è bene farsene una ragione. Questo non vuol dire che l’Italia è destinata a non contare nelle relazioni internazionali. Ma per contare, è necessario definire le aree privilegiate di intervento, sia tematiche che geografiche, individuando quelle dove davvero possiamo fare la differenza. Occorre agire coerentemente, con strategie di lungo periodo che davvero impegnino e coinvolgano il sistema paese. Va dato atto che, negli ultimi anni, questa definizione delle effettive priorità italiane ha cominciato a prendere forma: Mediterraneo, Balcani, Russia, Europa, peacekeeping e peace-enforcing ne sono alcuni esempi. Quella che forse ancora va perfezionata è una rete di alleanze che serva al meglio gli interessi italiani e che, soprattutto, sia affidabile. In certi ambiti questo è stato fatto con successo – si pensi alla coalizione United for Consensus – sulla riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma forse è il caso di fare di più; ad esempio, c’è una vaga coalizione di paesi del sud d’Europa – l’Olive Group – che non aspetta altro che l’Italia la prenda in mano e la rivitalizzi. Insomma, se si accettasse una volta per tutte l’evidenza, ovvero che l’Italia è una media potenza, potrebbe diventare una grande media potenza.