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Commentary

Op-ed

Il peso della storia nella crisi georgiana

Federiga Bindi
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Federiga Bindi Former Brookings Expert

August 28, 2008

Intervenendo alla riunione congiunta delle Commissione estera di Camera e Senato (26 agosto us), il Ministro Franco Frattini ha menzionato le “ragioni storiche della Russia” nella crisi georgiana, per altro poi illustrate in modo avvincente dal Ministro ombra degli Esteri Piero Fassino.

Dimenticare la prospettiva storica – che mi pare essere il leit motive delle disastrose decisioni politiche internazionali degli ultimi, a partire dall’Iraq – è non solo pericoloso ma anche miope, in quanto mina le capacità negoziali dei “dimenticandi”, facendo loro perdere di credibilità.

La capacità negoziali di un paese si basano infatti innanzitutto sulla credibilità degli attori, e se essi sono noti per non mantenere la parola data, il loro peso negoziale diminuisce fino al punto di rendere inappetibile lo sforzo per negoziare con essi.

L’amministrazione USA (e non solo!) si sta pericolosamente infilando in questa direzione nel momento meno opportuno – tra le altre cose è all’orizzonte la rinegoziazione del Trattato di Non Proliferazione Nucleare che sta per scadere. Credono, forse, di poter supplire con una politica di potenza.

E’ curioso per altro notare come i più acclamati studiosi di relazioni internazionali americani – Hans Morgentau, Henry Kissinger, Robert Kagan solo per citarne tre – in realtà sono tutti storici convertiti alle relazioni internazionali. Persone che – anche grazie alle origini europee – hanno una prospettiva storica originale che hanno applicato alle relazioni internazionali ricavandone teorie sistemiche per la meraviglia di chi, guardando solo al particolare, non riesce a cogliere tali trends…

Ma in Europa, dove la storia di secoli è spesso ancora un irrisolto fardello, è sorprendente la smemoratezza dei nostri politici rispetto a vicende vicine e che buona parte di essi hanno vissuto in prima persona, come gli eventi degli anni ’90.

Senza voler andare nel passato remoto ricordando che i russi (come la Cina, l’Egitto o nel loro piccolo anche gli Inglesi!) si percepiscono come un impero e sono dunque grati a Vladimir Putin per il ritrovato status mondiale (status che per altro in tema di energia vuol dire la potenzialità di mettere in ginocchio buona parte di Europa…), vorrei menzionare che coloro che chiedono di usare toni duri e risoluti con la Russia si dimenticano che negli anni ’90 fu fatta una scelta ben precisa.

Quando l’URSS si disgregò, si pose infatti il problema di come impostare le relazioni con gli stati che stavano da esso emergendo. In particolare, due erano le possibili vie da seguire – il contrasto o l’inclusione.

La prima posta in gioco fu l’entrata nel Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale con base a Strasburgo la cui maggiore vocazione era quella di essere il club delle democrazie europee. Fino alla caduta del Muro di Berlino era stata applicata con rigore la scelta di ammettere in esso solo democrazie compiute: l’Italia, con una grande azione diplomatica e alla capacità di inghiottire le umiliazioni da paese sconfitto, era miracolosamente riuscita ad entrare tra i paesi fondatori (1949), ma già la Germania aveva dovuto aspettare l’anno seguente. Portogallo e Spagna sono entrate solo a transizione democratica avanzata (1976 e 1977) e quando in Grecia vi fu il colpo di Stato dei Colonnelli (1967) la partecipazione greca fu sospesa.

La questione dell’entrata della Russia scatenò dunque al tempo un dibattito abbastanza sostenuto visto che, come ben si sapeva, la transizione democratica della neo-federazione (e di molti dei suoi ex compagni di strada) era ben lungi dall’essere compiuta. Come detto, fu scelta la strategia dell’inclusione e dopo l’Ukraina (novembre 1995), la Russia fu ammessa nel febbraio 1996. La strategia dell’inclusione continuò poi con la trasformazione del G7 in G8 (giugno 1997) e con il dialogo Russia-Nato, culminato a sua volta con la riunione NATO Pratica di Mare (2002).

Con questo la Russia si attendeva che, nonostante il disastrato assetto economico e politico interno, vi sarebbe stato un dialogo ed una cooperazione su una base di parità, come Boris Eltsin non mancò di dire a Bill Clinton sostenendo che “Russia e Stati Uniti devono essere partner alla pari, non va bene se gli Stati Uniti difendono i loro interessi e la Russia no” (Repubblica, 28 gennaio 1996). Per inciso, Eltsin contestualmente ribadì l’ opposizione della Russia a un allargamento della Nato in Europa Orientale: “Gli ho inviato un messaggio molto serio, che Bill si è impegnato a studiare”. L’anno successivo il clima era tale che, forse peccando di troppo ottimismo, Sandro Viola scriveva sulla prima pagina di Repubblica (11 giugno 1997): “Da molti mesi, la Russia non fa più – o quasi – notizia. […] L’ idea di una frizione – e non parliamo di una rottura – tra il governo di Mosca e un governo dell’Occidente appare ormai come impensabile. Lo si è visto in queste settimane, quando i paesi della Nato hanno deciso di far posto nell’alleanza alla Polonia, all’Ungheria e alla Repubblica Cèca, tre degli ex “satelliti” dell’ Urss: dopo una debole reazione, i russi hanno dovuto accettare l’allargamento della Nato pur di non compromettere i rapporti col campo occidentale”. Ma proprio quest’ultima osservazione avrebbe dovuto mettere sull’attenti: i russi hanno “dovuto accettare” l’allargamento, leggi subire, nonostante le iniziali assicurazioni in senso contrario. Vale anche la pena di ricordare che i tempi dell’allargamento furono forzati dall’amministrazione USA, nel tentativo di rendere meno significante l’adesione dei paesi dell’Europea Centrale ed Orientale all’Unione Europea, avversata da Washington.

Come si sa, Mosca non ha affatto gradito i successivi allargamenti della NATO verso est ed in particolare vive la possibile inclusione di Georgia e Ukraina come una minaccia diretta contro se stessa. La decisione degli USA di firmare l’accordo per posizionare i suoi missili in Polonia, avvenuto proprio nei giorni della crisi georgiana non ha certo aiutato a moderare i toni di Mosca.

L’altro elemento che in questi giorni è stato menzionato, ma non sottolineato abbastanza, è il riconoscimento dell’indipendenza del Kossovo, oibò compiuto anche dall’allora governo Prodi il 21 febbraio 2008, seguendo l’avventata decisione USA e nonostante il netto monito di Mosca che ciò avrebbe rappresentato un precedente per il Causaso e non solo – tant’è che paesi a rischio secessione interna come la Spagna ben si son guardati da fare il riconoscimento. Intervenuta ad un seminario ristretto alla Brookings, l’ex Segretario di Stato Maddalein Allbrigh, interrogata sulla differenza tra l’indipendenza del Kossovo e quelli di altri possibili casi ha risposto “it’s a good question. There is a difference, but, analitically I wouldn’t be able to tell you which…”

A Washington, Casa Bianca e think tanks di ogni tono e colore – che a marzo mal avevano digerito la decisione del vertice NATO di posporre l’entrata nella NATO di Ukraina e Georgia e che già avevano approfittato della mancata risoluzione ONU sulla crisi in Zimbawe per attaccare il comportamento di Mosca, “indegna” di stare nel G8 – fanno oggi a gara a sparare a zero, a riprova che la politica estera USA e una e che poco cambierà nell’essenza, quale che sia il vincitore delle prossime elezioni. A parte l’editoriale di Michail Gorbachov pubblicato sul Washington Post, pochi ad esempio ricordano che – se i russi ne hanno indubbiamente approfittato – la crisi è stata iniziata dalla Georgia, pompata dal percepito sostegno USA. Il Segretario di Stato americano Condoleeza Rice appare da parte sua essere tornata al suo primo amore (odio), la Russia, nel cui studio era specializzata a Stanford.

E’ indubbio che da alcune fronti si tenti di influenzare la traballante gara presidenziale spingendo voti nei confronti del candidato che garantirebbe maggiore sicurezza – suppostamente John McCain – tant’è che Barak Obama ha finito per scegliere come Vice il politico democratico con maggiore esperienza nella politica estera, Joe Biden, invece che un innovatore come lui.

Questo attacco frontale americano può solo danneggiare il già non brillante clima internazionale aumentando le tensioni, che non potranno non ripercuotersi sul resto del mondo, a partire dal Medio Oriente (questione iraniana in particolare). E’ necessario più dialogo con Mosca, non più confronto. Non è cosa facile da far capire agli USA, abituati a vedere il mondo in bianco e nero e a considerarsi i vincitori della guerra fredda. L’Italia, nel suo piccolo, sta per una volta dando il suo positivo contributo e, novità rilevante, lo sta facendo con un fronte politico sostanzialmente unito – fatta salvo qualche minore voce isolata. Può dar noia ad alcuni, ma sta facendo bene.